venerdì 12 marzo 2010

Quella volta che io e Dario Fo...


Dario Fo

QUELLA VOLTA CHE IO E DARIO FO…

di Alfredo Romano

Affaccendato a frequentare il liceo a Galatina alla fine degli anni Sessanta e ancor più nelle estati roventi a raccogliere e infilzare tabacco in quel di Civita Castellana, davvero ignoravo una qualche passione per il teatro. A dire il vero a Galatina avevo saggiato una rappresentazione e fu quando fummo invitati tutti noi alunni delle scuole superiori a una matinée al Cavallino Bianco per assistere alla Locandiera di Goldoni. Il ricordo è traumatico perché, nel corso della messinscena, si susseguivano sghignazzi, risa, frasi ingiuriose e volgari verso i poveri attori che con fatica si guadagnavano il pane.

Nel gennaio del 1974 fui chiamato alle armi: dapprima di stanza a Foligno, per cinque mesi di corso, e poi a Trento per altri nove mesi con esercitazioni diurne e notturne ad alta quota (20 gr. sotto zero) per “disturbare” gli arancioni, sinonimo di quei rossi che stavano nell’Europa dell’Est. Alla fine di dicembre ebbi una licenza di 5 gg. + 2 con destinazione Milano, dove, anni prima, mi ero sollazzato, si fa per dire, come muratore e poi metalmeccanico alla Pirelli di Cinisello Balsamo.
Dario Fo e Franca Rame
Alla stazione mi aspettava il mio amico Sebastiano, ex compagno di scuola delle elementari a Collemeto, un tipo in gamba che conosce tutti i mestieri del mondo, geometra perfino, col diploma conquistato alle scuole serali dopo otto ore di lavoro.
“Beh, che si fa stasera, Seba?”
“Oh, stasera andiamo a trascorrere la notte di capodanno con Dario Fo e Franca Rame: vedrai che ce la spassiamo.”
Dovete sapere che Dario Fo fu cacciato dalla Rai nel 1962 perché, nella conduzione di Canzonissima, una popolare trasmissione televisiva di varietà della RAI, aveva denunciato, teatro facendo, i troppi morti sul lavoro in Italia. Fo aveva rotto il giocattolo degli italiani, ma non si diede per vinto. Anni dopo occupò a Milano un ampio capannone dismesso e lo ristrutturò col lavoro di amici e compagni: al centro il palcoscenico e tutt’intorno le gradinate per un numero di mille spettatori. Fu quella la prima volta che assistetti a uno spettacolo di Dario Fo.
Si fece buio in sala, una donna in nero (Franca Rame, moglie di Fo, artista anche lei) era riversa sul figlio ucciso dalle milizie dei colonnelli greci nel corso di una manifestazione di protesta. La piece era tratta da Epitaffio e Makronissos del poeta greco Giannes Ritsos. Ricordo che non volava una mosca e tutti, me in specie, eravamo attoniti di fronte a una testimonianza di dolore e di denuncia in forma di versi. Ecco, mi dissi, questo è il teatro, quello tradizionale non bastava più ormai, c’era bisogno invece di un teatro d’impegno che si aprisse al sociale, ai mali del nostro paese e del mondo intero.
Venne quindi il turno di Dario Fo a rappresentare Mistero Buffo, una giullarata popolare, un insieme di monologhi dove descriveva alcuni episodi di argomento biblico ispirati ad alcuni brani dei vangeli apocrifi o ai racconti popolari sulla vita di Gesù. Tutto in forma esilarante, giocosa e con grande bravura mimica, Dario Fo vestiva i panni di un monaco eretico come ai tristi tempi della Controriforma, roba da meritarsi il rogo dal momento che proclamava il tradimento del Vangelo da parte della Chiesa ufficiale.
Ma poi scoccò la mezzanotte e tutti a far festa e a brindare con panettone e lambrusco che gli stessi Dario e Franca smistavano a tutti i convenuti. Alle due di notte tutti in corteo
Il poeta Giannes Ritsos
verso Piazza Duomo a continuare la festa con musica, canzoni e balli dileggiando, si fa per dire, il capodanno borghese. Feci amicizia con uno spagnolo (non ricordo più il nome), col quale girai le piazze e le strade fino all’alba puntando sulle abitazioni di suoi amici. Prima di lasciarci, mi regalò proprio il libro di poesie Epitaffio e Makronissos e un disco 33 giri di Luigi Tenco. Mi rivelò lo spagnolo che nel 1960 aveva partecipato ai moti di Reggio Emilia dove la polizia uccise sei dimostranti. Da questo episodio era nata una canzone: Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei, canzone commovente che fa parte del mio repertorio: anche la cantante Milva ne fece un cavallo di battaglia. 

Alcuni mesi dopo lessi la notizia che Fo avrebbe presentato a Trento Il Fanfani rapito, commedia in tre atti, un’altra satira contro il potere democristiano. Il pubblico era composto di giovani soprattutto, compresi anche tanti militari che come me sfidavano le autorità della caserma che non gradivano la nostra presenza a simili manifestazioni. A quei tempi, tra l’altro, c’erano dei militari-spie regolarmente addestrati a “riferire” sui cosiddetti sovversivi. Ma come avrei potuto rinunciare a uno spettacolo comico del carico e del carisma di Dario Fo che recitava all’insegna del castigat ridendo mores? (È pur vero che, vista la mal parata dei politici di oggi, rimpiangiamo quasi i democristiani di quegli anni che, almeno, quando venivano colti con le mani nel sacco scomparivano dalla circolazione).
Dario Fo in una scena
 del "Fanfani rapito"

Alcuni anni dopo nacque il secondo canale della Rai che fu dato in “appalto” ai socialisti che, nel frattempo, erano entrati nel governo. Quest’apertura a sinistra permise a Dario Fo di rientrare in TV e presentare il tanto vituperato Mistero Buffo che non era mai stato gradito non solo ai benpensanti, ma soprattutto alla Chiesa ufficiale. I telespettatori scoprirono Dario Fo, che, oltre che attore, era anche autore dei testi che gli avrebbero valso il Nobel per la letteratura nel 1997.
Sulla scena Fo si presentava non come uno scomunicato, ma come un eretico che rivendicava con ironia e farsa, mimando, sproloquiando e ridendo il messaggio originario del Vangelo tradito dalla gerarchia ecclesiastica.

A marzo del 1975 fui congedato dal servizio militare (14 mesi di naja, ma mi ero fatto le ossa, quanto a vita regolamentata, alcuni anni prima nel seminario di Nardò). Ripresi la mia occupazione nella biblioteca comunale di Civita Castellana, ma fui contattato ben presto dal segretario della Sezione Gramsci per aderire al Pci con tanto di tessera. Da subito ebbi l’incarico di “dirigente stampa e propaganda” nella direzione e ciò grazie alla stima che mi veniva da più parti. Per la cronaca, Civita Castellana era soprannominata la “Stalingrado d’Italia” perché, in tempo di elezioni, il Pci guadagnava in città il 70% circa dei voti. Ciò grazie al fatto che la città era il polo più importante della produzione di sanitari e stoviglierie di tutto il centro Sud, quindi con la presenza di una massiccia realtà operaia molto politicizzata.

Ero un perfetto funzionario e non disdegnavo di vendere L’Unità ogni domenica con altri compagni. Di rilievo i tazebao che quasi giornalmente attaccavo nella teca pubblica del partito che stava in Via Ulderico Midossi, tazebao che ancora conservo. Ma dovevo fare i conti con l’oste: scoprii che i compagni in massima parte si adeguavano al pensiero unico dettato dalla direzione del Pci e dal quotidiano l’Unità. A dire il vero questi panni mi stavano desolatamente stretti: per prima cosa criticavo l’allora Unione Sovietica per l’assenza di libertà, di pensiero e per il divieto di far viaggiare i cittadini sovietici nel resto del mondo. Ma criticavo anche l’assenza di libertà nel Partito, perché bastava mettersi fuori linea o muovere una critica per essere accusato di favorire gli allora gruppi extraparlamentari che a quel tempo erano odiati più dei fascisti. Il fatto per es. che io smaniassi per il teatro di Dario Fo (a quei tempi considerato dal Pci un eretico), non deponeva a mio favore.


Una manifestazione sindacale degli anni '70. Nella foto sono quello col megafono.
Foto di Franco Crestoni. 
Accadde che Dario Fo (era il 1979) fu assolto in tribunale per gli "incidenti" al teatro Rex di Sassari. Sei anni prima, durante la tournée di Guerra di popolo in Cile, era stato arrestato e poi rilasciato perché accusato di minacce e resistenza a pubblico ufficiale. La mattina della sentenza mi trovavo in Piazza Matteotti con un bel po’ di compagni e scoprii stranamente che in tanti, troppi, erano rammaricati che Fo fosse stato assolto. Debbo dire che quella riprovazione per Dario Fo manifestata dai miei compagni fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non persi tempo: mi recai seduta stante in casa del segretario del partito e gli consegnai la tessera. E per sempre. Il pensiero unico in Seminario da ragazzo e il pensiero unico anni dopo nel Pci non facevano per me evidentemente. Fu così che non feci più carriera né nel Pci, né in nessun altro partito: libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Purgatorio, canto I, vv. 70-72). Detto questo non significa che il Pci non abbia avuto grandi meriti nella sua storia: la lotta antifascista e lo stare sempre a fianco dei lavoratori nelle lotte e nelle rivendicazioni salariali. Certo che pagai cara la mia uscita, sia sul piano personale, sia sul posto di lavoro. In Consiglio comunale per giunta si decise che il bibliotecario non dovesse avere più diritto di voto nel Comitato direttivo, unico bibliotecario d’Italia immagino privo di questo diritto. Anni dopo, in ogni caso, la biblioteca sarebbe stata insignita del Premio di Qualità che tuttora conserva.
Agli inizi del 1991 scoppiò la Guerra del Golfo. Al Teatro Quirino di Roma, Dario Fo, che per me era un mito ormai, avrebbe presentato Mistero Buffo. Naturalmente ero ansioso di assistere al suo spettacolo e partii per Roma insieme con degli amici. Lo spettacolo stava per cominciare, quand’ecco mi venne di correre alla toilette: dovevo far presto perché le luci in sala stavano per spegnersi. Varcai la soglia della toilette, dentro non c’era anima viva. Mi posizionai sul primo orinatoio che trovai, il flusso era più  veloce del solito ché dovevo sbrigarmi. Quand’ecco un rumore di passi: qualcun altro che aveva avuto la mia stessa impellenza. Dapprima guardai di bieco la figura che mi si era posizionata accanto, poi non potetti fare a meno di lanciargli uno sguardo veloce… Ma no, non era possibile, proprio lui, Dario Fo con quella faccia da clown che si sbottonava e: “Dario Fo!” riuscii appena a pronunciare con faccia sbalordita. Mi parve imponente Dario Fo (generalmente sul palcoscenico è difficile misurare l’altezza di un attore), ma lui, consapevole del mio stupore, con fare da teatro mi regalò quel sorriso ironico e beffardo che mi era familiare ormai e “Pissemo anche noi” mi rassicurò in un simil dialetto lombardo. Insieme ci dirigemmo al lavandino per “purificarci” le mani; ci asciugammo e poi la voglia di parlargli, raccontargli in due secondi la mia vita:
“Mi chiamo Alfredo, Dario, e ricordo bene quella notte di capodanno del 1974 al capannone con Franca che recitava Epitaffio e Makronissos! E tu che ti scagliavi furioso contro la strage di operai e sindacalisti che si erano rivoltati nei cantieri di Danzica in Polonia ed era la prima volta che mi trovavo di fronte a una voce libera che denunciava a gran voce la situazione della libertà nei paesi dell’Est, un tasto che non si poteva toccare allora all’interno della sinistra...”
E lui, che aveva già addosso il costume di scena, tutto vestito di nero, annuiva divertito… Quand’ecco una voce accorata che proveniva dalle quinte:
“Dariooo! Dariooo! dài dài ché è già buio in sala, il pubblico protesta, corri corri, è tutto esaurito, sbrigati, dài dài!”
“Devo andare, devo andare! scappo scappo, ciao!” nel mentre mi stringeva la mano.
E scappai anch’io e mi ritrovai in platea coi miei amici tutti a canzonarmi:
“Ma quant’acqua c’avevi a bordo?”
“Aoh, non ci crederete, ma ho pisciato con Dario Fo!”
“Come come?”
“Sì, ho pisciato con Dario Fo!”
“Ma che stai a dì! Che te sei rincoglionito?”
“Ve racconto dopo, mo’ state zitti che lo spettacolo è cominciato.”
E prima dello spettacolo in programma, Dario Fo non mancò di fare una premessa sulla Guerra del Golfo satireggiando e sbeffeggiando l’intervento americano, quindi alcuni episodi del Mistero Buffo, che son di quelli che anche ad ascoltarli mille volte non ti annoieresti mai.
Stava in gran forma il nostro Dario: era il 24 marzo e quel giorno compiva 65 anni: lui stesso ce lo rivelò dal palco e noi a battergli le mani che non finivamo più.

Per saperne di più:
Mistero Buffo

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