venerdì 8 novembre 2013

QUELLA VOLTA CHE MI RECAI A SORRENTO PER AVER NOTIZIE DELLA ZIA SUORA. ERA IL 1967.




“Figlio mio, è da anni che non vedo una delle mie sorelle suore, la Sina, che sta confinata a Sorrento. L’altra, la Cosimina, è più fortunata: si trova nel convento di Maglie a 35 km da Collemeto e almeno lì la vanno a trovare. Ma la Sina mia, poveretta, così lontana, ma chi ci va? Alfredo, figlio mio, devi recarti a Sorrento e portarmi sue notizie.” Se n’era uscita così mamma Lucia mentre alle quattro del mattino eravamo intenti alla raccolta del tabacco nella sconsolata landa di Terrano, a Civita Castellana, dove non cantava mai gallo e non luceva luna: un castigo di Dio per scontare quali colpe chissà. Morti di sonno e faccia a terra, udivamo solo il ticchettio delle foglie spezzate quale colonna sonora alla nostra fatica, la schiena curva per ore ed ore e ogni tanto tirarsi su per placare il sangue che fluiva al cervello.

1955. Mia zia Rosina Giustizieri, detta Sina, prima di farsi suora.

Quando zia Rosina, detta Sina, e zia Cosimina, ultime di sette fratelli, abbandonarono Collemeto alla volta di Roma per consacrarsi suore dell’Ordine Francescane Alcantarine, io avevo appena cinque anni. Non ho netta memoria di quando le zie vestivano come le altre ragazze prossime all’età da marito, ma un ricordo curioso lo rammento.
Abitavamo sulla stessa via Padova a un centinaio di metri dai nonni materni e spesso mi recavo da loro dove trovavo anche la zi’ Sina e la zi’ Cosimina. Accadde alla zi’ Sina di prendersi una di quelle malattie infettive che a quei tempi erano usuali e che portavano non di rado alla morte. Così andavo a trovare spesso la zi’ Sina e bastava la mia presenza per distrarla un po’ dalla febbre alta. Si lamentava ogni tanto la zia e così mi saltò in mente un rimedio che le manifestai con tale entusiasmo che non poté rifiutare:
“Zi’ Sina, vuoi che ti suono la fisarmonica ché così ti passano i dolori di capo?”
“Sì sì!” assentì la zia con voce flebile.”
Così mi procurai un foglio di carta di giornale e, dopo averlo pieghettato, aprendo e richiudendo il pieghevole a mo’ di fisarmonica, misi in moto un concertino vocale sul motivo della raspa col solo lalà lalà lalà! / lalàla làlla là! E alla zi’ Sina ci scappava da ridere, per farmi contento magari. E ogni giorno alla zia suonavo la “fisarmonica” fino a quando fortunatamente guarì del tutto.

1955. Mia zia Cosimina Giustizieri, prima di farsi suora all'età di 18 anni.

Le zie suore nel corso del rito della vestizione dovettero cambiare, a norma di regolamento, il nome di battesimo: la zi’ Rosina divenne zia suor Luigina e la zi’ Cosimina zia suor Teresina. Tornavano a Collemeto ogni anno d’estate nel mese d’agosto per una vacanza di 15 giorni. Noi nipotini le aspettavamo sempre per via dei regalini: caramelle, confetti, cannellini, ma anche rosari, libretti devozionali, immaginette di santi e madonne. Malgrado il caldo afoso, per regola erano costrette a coprirsi il capo lasciando scoperti solo gli occhi, il naso e la bocca; la fronte, le gote e il mento nascosti. Con gli anni avrebbero ottenuto di scoprirsi il volto lasciandosi solo un velo come copricapo.
Accadeva ogni anno, grazie al solito diavolo tentatore, che mio padre Giovanni proponesse di recarci tutti al mare per una scorpacciata di cozze di cui tutti noi, le zie suore in specie, eravamo ghiotti. Stipati in otto nella Seicento Fiat verde pisello (papà, mamma, io, i miei tre fratelli e le zie suore) partivamo alla volta di Gallipoli dove ci procuravamo da un salumiere il pane rigorosamente bianco, considerato un lusso allora rispetto al pane di grano duro, quindi un kg di provola piccante, due bottiglie di rosato salentino, dei limoni e poi la corsa al mercato del pesce per l’acquisto di 3-4 kg di cozze nere, di poi alla volta degli scogli dove iniziava il rito dell’apertura delle cozze, mestiere consumato per mamma e papà. Per noi bambini non c’erano divieti di sorta e con quel profumo di mare e la schiuma che lambiva gli scogli, ci abbandonavamo a un rito di antica usanza: dapprima con l’aiuto di un coltellino staccare le valve, raschiare la valva rimasta liberando il mollusco dalla corda (zoca), spremere sopra delle gocce di limone, portare in bocca la valva col mollusco risucchiandolo col labbro superiore, mordicchiare un pezzo di pane e di provola e, infine, tra un boccone e l’altro, tracannare l’atteso rosato. L’allegria era generale e le zie suore si beavano di quella giocondità gradita non solo al corpo ma anche all’anima. E, nel divorare quel bendidio, si suffraggiavano anche i morti, come era sempre d’uso sulle tavole salentine. Le risate si perdevano nel fragore dei flutti e della schiuma fino all’ora del tramonto, quando il sole, allungando sul mare i suoi dardi fiammeggianti, pareva dovesse ingaggiare una lotta contro il maligno. E, come per ringraziare la buona sorte, giungeva anche l’ora di sgranare il rosario, il sole ormai dietro i flutti. E, come reduci da un pasto da re si tornava a casa con un po’ di mestizia. E le zie suore, ormai ottuagenarie, ancora oggi rimembrano come un sogno il paradiso perduto degli scogli.

In tanti anni di servitù ecclesiastica, le zie hanno conosciuto tali e tante sedi conventuali che è facile pensare che ci fosse una regola sottintesa per la quale le suore in generale non dovevano familiarizzare più di tanto tra loro. In alcuni periodi hanno convissuto in uno stesso istituto, ma il più delle volte sono state sempre separate. Non dimentico le tante destinazioni: Bari, Catanzaro, Maglie, Muro Leccese, Manziana, Scauri, Molfetta. Attualmente sono separate: la zi’ Cosimina dimora a Bari e la zi’ Sina a Canosa di Puglia. La loro aspirazione maggiore ormai è, quando sarà, quella di poter essere sepolte nel cimitero di Collemeto accanto alle sorelle e ai genitori ormai defunti da decine di anni.
Ogni anno, alla fine del soggiorno estivo a Collemeto e in partenza per Civita Castellana, io e Mina non manchiamo di fare sosta prima a Bari e poi a Canosa per dare un saluto alle zie suore e portare in dono alcuni cibi della loro infanzia come le frise e le pucce di pane con le olive che poi dividono con le consorelle. Noi nipoti restiamo per loro l’ultimo contatto col mondo degli affetti familiari e ci aspettano sempre come “anime sante”, espressione salentina che dà il senso dell’attesa. In conversazione con le zie, dopo aver dato loro notizie del parentado, sapendo della mia passione per il folclore salentino, passiamo a raccontare fatti e misfatti della nostra e della loro infanzia che custodiscono come un prezioso lascito. Si parla in salentino ovviamente, un modo per farle scompisciare dalle risate. E grazie anche alle conversazioni con le zie suore alcuni racconti sono finiti nei miei libri di tradizioni popolari.
Quando abbiamo sostato a Canosa alla fine dell’estate scorsa, ho trovato la zi’ Sina in condizioni precarie: la poveretta camminava aiutandosi con un girello. Ma, nella sorpresa di vedermi, ha ripreso il suo spirito di sempre con quel sorriso sempre stampato sulla sua faccia gioconda. In breve l’ho fatta accomodare:
“Zi’ Sina, voi cu tte cuntu te La contramizione te papa Cajazzu?”
Al solo dirlo è scoppiata a ridere e non la smetteva più. E già, perché la zi’ Sina, solo a nominarle il titolo di un racconto che già conosce se ne va in sollucchero.

1956. Le mie zie: Suor Luigina (già Rosina) e zia suor Teresina (già Cosimina).

“Alfredo, figlio mio, tieni ormai 18 anni, sei il più grande dei fratelli e, sebbene ragazzo, hai dimestichezza con i treni per i tanti viaggi Lecce-Roma e viceversa: perciò vai a trovare mia sorella Sina per rassicurarmi che si trovi in buona salute soprattutto.”
Era estate, partii di sabato all’alba con la Ferrovia Roma Nord che dopo un’ora e mezza mi scaricò a Piazzale Flaminio. Salii sull’autobus che mi condusse a Roma Termini e qui, dopo l’attesa di un’ora circa per la coincidenza, presi posto sul treno che mi avrebbe portato a Napoli. Alla stazione di Napoli mi si affiancò un signore apparentemente gentile che a tutti i costi volle caricarsi della mia valigia di cartone col dire che avevo l’aria stanca per il viaggio. Vero che era mezzogiorno ed ero reduce da una levataccia, ad ogni modo lasciai che il signore mi aiutasse a reggermi la valigia. Usciti dalla stazione il signore me la restituì e io lo ringraziai per la gentilezza, quando, ad un tratto, stese la mano e sillabò:
“Sono 200 lire, grazie!”
Non mi rabbuiai per questo, rimasi stupito semmai. Anche se avevo in tasca i soldi contati, capii per la prima volta che c’erano al mondo altri modi per guadagnarsi il pane. Lo stesso signore mi indicò l’autobus che mi avrebbe portato a Sorrento. Quando l’autobus giunse sulla costiera amalfitana non potetti che restare incantato di fronte a tanta smisurata bellezza del mare e del paesaggio. Finalmente Sorrento, un paese così decantato nella letteratura musicale napoletana, come anche nel cinema. Estrassi dalla tasca l’indirizzo del convento e chiesi spiegazioni a un passante. Non era distante e di lì a poco mi trovai davanti a un vecchio e austero edificio del Seicento. Mi aprì un custode e gli deposi le mie generalità. Ero emozionato: di lì a poco avrei visto la zi’ Sina che non vedevo da anni e immaginavo la sorpresa.
Il custode mi introdusse nel grande cortile dell’edificio circondato da un colonnato dove un centinaio di giovani fanciulle giocavano e vociavano a più non posso. Il custode mi chiese di attendere ché sarebbe salito al primo piano per far scendere mia zia. Intanto nell’attesa mi si avvicinarono alcune giovinette. Mi impressionarono a prima vista i loro abiti: consunti e non certo consoni alla loro età. Incuriosite dall’estraneo, si approssimarono per chiedermi chi ero, come mi chiamavo, perché mi trovavo lì. Intanto arrivavano altre ragazze e altre ancora. E accadde l’imprevedibile: sì, ero circondato da decine di giovinette che mi toccavano e mi si stringevano addosso sussurrandomi parole carine come quanto sei bello! che begli occhi che tieni! che bei capelli che hai!” Ero disorientato, mi schernivo, guardavo l’una e l’altra, le guardavo tutte, le voci, le mani, gli occhi delle ragazze, quando, ad un tratto, respirando a fatica, fiutai il pericolo e cercavo ormai una via di scampo. Fortunatamente venne a liberarmi la voce concitata del custode che mise fine all’assedio.

Mia zia Cosimina con i ragazzi nell'Istituto di Bari.

E dire che noi uomini abbiamo sempre vagheggiato quel sogno millenario di vivere in un harem! Sì, ma non così: senza uno sguardo dolce, senza specchiarsi negli occhi, sussurrarsi parole d’amore inusitate, carezze e strette da rimembrare per tutta la vita.
Ma ecco la zi’ Sina che scendeva dalle scale di gran corsa non credendo ai suoi occhi di trovarmi lì. E ci siamo abbracciati con tanta tenerezza non capacitandomi io del suo destino di reclusa che anche a lei, come alle ragazze, la vita le aveva riservato. Una bella donna era la zi’ Sina: era stata fidanzata prima di farsi suora, ma scappò, scappò da un padre che non permetteva alle figlie neanche di sostare sull’uscio di casa, ma erano quasi tutti così allora i padri con le figlie. Recluse per recluse, la zi’ Sina e la zi’ Cosimina, riflettendo sul loro destino di future madri sottomesse all’uomo padrone, preferirono chiudersi in convento. E per tutta la vita hanno riversato il loro amore materno sui figli degli altri, dai più piccoli ai diciottenni, quelli che avevano avuto la sventura di avere madri o padri sciagurati.
Ma era giunta l’ora di pranzo e la zi’ Sina mi fece sedere a tavola con le consorelle che vollero sapere tutto di me. Mia zia riassumeva loro la mia biografia non risparmiandosi di rivelare che fino a qualche anno prima ero stato in seminario cinque anni.
“Oh, che peccato:” tutte in coro “saresti stato un bravo sacerdote!” nel mentre mi schernivo maldestramente con qualche rossore in viso.
Ma la sorpresa avvenne la sera quando arrivò l’ora di andare a nanna. Mia zia mi delucidò:
“Ascolta, Alfredo, non te ne curare: stanotte dormirai in una camera che sta in comunicazione col dormitorio delle ragazze e, poiché è priva di chiave, sono costretta a sbarrarla con un catenaccio.”
“Ma dài, zi' Sina, stai tranquilla ché non oserò…”
“Temo siano le ragazze invece a combinare qualche guaio, m'interruppe la zia: abbiamo esperienza, nipote mio.”
Prima di appisolarmi, non mi nascosi di essermi imbattuto amaramente in un luogo che richiamava la mia esperienza in seminario di qualche anno prima e, per questo, mi sentivo in cuor mio solidale con le collegiali: sapevo la disciplina del collegio, sapevo la privazione degli affetti. Ma le ragazze chiuse in collegio non avevano scelto di entrarci: sole al mondo, prive di contatti esterni e di ogni affetto familiare, vivevano come una colpa la vita irreggimentata, costrette alla disciplina e così pure allo studio. Erano gli anni ’60 del secolo scorso e la vita scorreva ancora come nei secoli prima. Ma la “rivoluzione” del Sessantotto era alle porte e ben presto sarebbero saltati non solo i vecchi metodi educativi nella società civile, ma anche in quella religiosa: si veda l’esperienza di don Lorenzo Milani priore di Barbiana che sovvertì il rapporto tra docente e alunno.
S’era fatta mezzanotte intanto, dormivo, quando sentii bussare alla porta che comunicava con quella delle ragazze. Tesi le orecchie, bussavano in gruppo, quindi un chiacchiericcio, poi parole più chiare, invocazioni di avvicinarmi alla porta. Frastornato, ascoltavo i loro lamenti d’amore, i desideri inconfessabili, i loro sogni segreti frantumati da una sorte ingrata. Non mi accostai alle voci accorate che provenivano da un harem in subbuglio, prigioniero io stesso. Mi sarebbe occorsa una spada forse per abbattere una porta che dall’inferno conducesse in qualche paradiso sciogliendo le fanciulle dal malvagio incantesimo.
Ero turbato e triste, scosso da quelle voci accorate. Il suono del catenaccio alle otto del mattino fu il segno della mia liberazione. Ma alla zi’ Sina non feci cenno di ciò che era accaduto nel corso della notte allorché un centinaio di ragazze avevano sognato di divorarmi brano a brano.


Alfredo Romano
Civita Castellana, novembre 2013



I salentini a Civita Castellana / Ritorno alla Tenuta Terrano: le foto di ieri e di oggi

Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla. Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però, ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi verso il mio casolare: ero tentato di tornare indietro tale era l’emozione che mi assaliva. E sì, perché era come tornare sul luogo della triste avventura dei miei, come essermi messo in viaggio per trovare mio padre, mia madre, i miei fratellini. I casolari che avvistavo d’intorno ormai tutti abbandonati, né si vedeva anima viva all’orizzonte; un forte vento invece che ululava quale colonna sonora col sole che dardeggiava a picco. E quando sono arrivato alla casa dove abbiamo abitato e patito per tanti anni, nel silenzio che regnava d’intorno sono apparsi tutti i miei fantasmi. Sì, avevo bisogno di sfatare quel buio oltre la siepe. Ho ripreso quindi con la fotocamera gli stessi scenari di allora, poi ho sostato per un’ora circa davanti al mio casolare in un silenzio irreale immaginandomi visi e situazioni così remote. Intorno non più la terra battuta da uomini e mezzi, ma l’erba spontanea che dava l’idea del triste abbandono. Ho desiderato, per assurdo, di ritornare ad abitare nel mio casolare, quasi a farlo rivivere in una seconda puntata in compagnia di volti e scenari di un tempo. Ah, la nostalgia! E sì, perché non si stava da re, ma c’era un mondo semplice e vero che era la vita, quella che, a dispetto del falso progresso, valeva la pena di vivere. Con la mente carica di mille visioni e pensieri, mi sono incamminato poi sulla via del ritorno e, per l’ultima volta, mi sono voltato e m’è venuto spontaneo fare un saluto, quasi che in fondo, laggiù, mia madre stesse sventolando un fazzoletto. Tornato a casa, ho confrontato le nuove foto a colori della Tenuta Terrano con quelle in bianco e nero scattate negli anni ’60-’70. E allora m’è venuta un’idea, quella di porre a confronto gli stessi scenari corredati da didascalie che narrano una storia. Si tratta di un documento fotografico sull’emigrazione dei salentini a Civita Castellana anche attraverso la storia della mia famiglia. Per non dimenticare un periodo storico che appartiene non solo a Civita Castellana, ma a tutto il Salento e l’Italia tutta.

Ed ecco più di 60 documenti fotografici con le didascalie che narrano un paesaggio e una storia.



APRILE 2012. Entro camminando nel viale d'entrata della Tenuta Terrano, Azienda De Fenu, Via Terrano n. 31, distante cinque km da Civita Castellana, dove la mia famiglia ha vissuto otto anni per la raccolta del tabacco, dal 1967 al 1975.

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APRILE 2012. A sinistra uno dei tanti caseggiati ormai abbandonati e senza vita che si vedono lungo la strada bianca prima di arrivare al mio vecchio casolare.

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APRILE 2012. Percorro la strada bianca che porta al mio caseggiato, detto San Massimo, che s'intravede appena in fondo. Mille volte da qui ho percorso a piedi i cinque km per recarmi a Civita Castellana, e altrettanti per tornare, non avendo neanche uno straccio di bicicletta.

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APRILE 2012.  Altri casolari abbandonati che si vedono percorrendo la strada bianca che porta al mio.

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APRILE 2012. S'intravede meglio il mio caseggiato là in fondo. La tentazione è quella di scappare, ma una brezza di vento addolcisce le mie emozioni. 

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APRILE 2012. Avanzo ancora: a sinistra scorgo il casale dove abitava Domenico Amato e la moglie Mafalda, due contadini calabresi. Domenico, il mio amico illetterato e il simpatico filosofo della tenuta. Lo chiamavamo capitano per il vezzo di coprirsi la testa col suo vecchio berretto militare, un residuo della seconda guerra mondiale cui aveva partecipato. Al berretto aveva aggiunto una sottile striscia rossa per dichiarare al mondo la sua fede comunista. Era di Carfizi, colonia albanese, e aveva partecipato ai fatti di Melissa per l'occupazione delle terre nel 1949. Una donna, Angelina Alfano, e due uomini, Giovanni Zito e Francesco Nigro, furono colpiti mortalmente alla schiena. 
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APRILE 2012. Sono quasi arrivato. Sulla destra mi appare il capannone dove s'infilzava il tabacco e si stagionavano li chiuppi appesi alla volta del soffitto.

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  APRILE 2012. Ed ecco la nostra casa colonica nella Tenuta Terrano a Civita   
Castellana in stato di abbandono, intorno tutte erbacce. Si scorge ancora un cavo 
pendulo della nostra vecchia TV in b/n. Quel rotondo grigio sulla parete di destra corrisponde al caminetto interno che presenziava in cucina. A furia di scaldarci con la legna, dopo alcuni anni il muro si sgretolò fino ad aprirsi, sicché mio padre dovette ricostruire il muro lasciandovi all’esterno il colore della malta usata il cui colore ancora resiste dopo tanti anni. Non si vedono più gli infissi delle finestre, ché il proprietario li ha nascosti con dei pannelli grigi per proteggerli dalle intemperie.

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OGGI 2012 E IERI 1967: LO STESSO SCENARIO. Era una "bifamiliare" dove alloggiavano due famiglie: la mia sul davanti, e dietro quella dei Mariano. In questo casolare abbiamo vissuto per otto anni. Precedentemente abitavamo nella tenuta di un altro proprietario terriero dove l’alloggio era proprio malsano e buio. Capitò un giorno che, mentre si era intenti a raccogliere tabacco su un pezzo di terra che fiancheggiava la strada, si trovò a passare un proprietario terriero la cui tenuta stava alcuni chilometri più avanti, verso Fabrica di Roma: era De Fenu. Rimase colpito dalla nostra destrezza nel raccogliere tabacco e si presentò. Ci promise che se fossimo diventati suoi coltivatori avrebbe costruito per noi una casa colonica nuova con acqua e servizi. E così fu. Le porte erano di ferro e i muri sottili, per cui l’inverno, con tutto che c’era il caminetto, era terribile lo stesso, ma almeno c’erano i servizi essenziali, perfino la doccia. Lasciammo la casa nel 1975: noi figli avevamo ormai un lavoro e i miei genitori ritornarono a Collemeto. Ma con la legge sull’abolizione dei contratti di mezzadria e di compartecipazione, la tenuta si svuotò, visto che al proprietario non conveniva più far coltivare tabacco sulla propria terra.

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIo, Alfredo, in canottiera a 17 anni. Il primo ricordo (la cosa mi fa ancora tenerezza) è quello di certe mattine quando ci svegliava la pioggia. Eravamo talmente ragazzi che per noi era una festa: e già, perché quella mattina non si sarebbe raccolto tabacco perché bagnato. Un dono poter dormire qualche ora in più. Eravamo proprio incoscienti noi ragazzi, ché in testa ai nostri desideri c’era sempre la pioggia a ogni risveglio. E un anno venne la grandine che spazzò via tutto il tabacco alto e rigoglioso. Mio padre e mia madre piangevano, noi ragazzi, invece, di nascosto a fregarci le mani ignari e felici. 

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIntorno alla Tenuta di Terrano c’è un paesaggio di forre, di torrenti e di fitta vegetazione spontanea, un paradiso terrestre ancora intatto. Ogni tanto mi recavo in queste forre per leggere, scrivere, oppure in cerca di solitudine e di ispirazioni varie. Ma andavo anche a pesca di gamberi di fiume catturandoli con le sole mani camminando nel guado contro corrente.

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia che versa il granturco alle sue galline. Una delle più belle eredità che ho avuto da mia madre è stata la cucina. Era una grande cuoca e il parroco di Collemeto chiamava sempre lei quando arrivava a Collemeto il vescovo in visita pastorale. E doveva preparargli un pranzo a regola d’arte. 

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOSono il primo da sinistra con i miei fratelli Aldo, Angelo ed Eugenio. Eccetto Aldo, che tornò a Collemeto negli anni ‘80 per fare l’ispettore di polizia a Galatina, gli altri sono rimasti a Civita Castellana: io bibliotecario, Angelo ed Eugenio ceramisti. Ci vogliamo bene ed è sempre un piacere ritrovarci intorno a una tavolata e tornare bambini nella lingua, nelle storie, nelle musiche, nei ricordi belli e tristi.

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOArrivai a Civita Castellana da seminarista dopo aver preso la licenza ginnasiale (allora c’erano gli esami in V ginnasio). Poiché mancavano solo tre anni alla maturità, fui ‘graziato’, mi si concesse di continuare gli studi. Ma per quattro mesi all’anno (da giugno a settembre) e per dieci anni consecutivi, non sono stato risparmiato nel lavoro del tabacco. Ed è stato bene così. Anche quando a 21 anni ho iniziato a lavorare in biblioteca non ero esentato dalla fatica. La mia prima vacanza l’ho conosciuta a 25 anni, dopo che i miei smisero di fare tabacco e se ne tornarono al paese. Rispetto ai miei fratelli, in ogni caso, riconosco di essere stato più fortunato. Ma un prezzo l’ho pagato anch’io e, a dirla tutta, l’ho pagato volentieri. 

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMio fratello Aldo, il secondo. Quando siamo arrivati a Civita Castellana aveva appena preso la licenza media. Lui avrebbe voluto continuare, ma non gli fu possibile. Ancora oggi ha un grande rimpianto, anche perché a scuola lui era il primo della classe. A 18 anni dovette andare coi muratori, ma la mattina gli toccava alzarsi all’alba lo stesso per la raccolta del tabacco. Insomma, a sera, di giornate ne aveva fatte due. E così fece domanda per entrare in polizia, e, brillante com’era, a 25 anni era già maresciallo; da lì a qualche anno ispettore. Angelo ed Eugenio, invece, rispettivamente terzo e quarto, abbandonarono la scuola durante l’anno scolastico quando i miei partirono per Civita Castellana.


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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOLa mia famiglia. In piedi: mamma Lucia, papà Giovanni, Angelo, Aldo; inginocchiati: io Alfredo ed Eugenio. Si raccoglieva la mattina dalle 4 alle 10, poi la fatica di riportar fuori i pesanti telai del tabacco chiusi nel capannone la sera prima, quindi s'iniziava l'infilzatura delle foglie che si protraeva fino alle 18 quando si tornava a raccogliere tabacco fino al tramonto. La mattina presto si andava sul campo con un solo un caffè all’alba. Si tornava a casa con una fame da lupi. Quelle fette di pane leggermente bagnate e condite da mia madre con olio, pomodoro, origano, sale e spicchi di cipolla, erano la nostra colazione. E anche se oggi sono passato a colazioni più ‘civili’, il sapore di quel pane e di quel pomodoro non è stato ancora superato.

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOIn piedi: io Alfredo, segue mio cugino Cosimo seminarista (oggi parroco di Collemeto), mia madre Lucia e mio fratello Aldo; in basso, papà Giovanni con i miei fratelli Eugenio e Angelo.

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia si vedeva come spersa lassù nella Tenuta Terrano e diceva sempre: «Ho una casa tanto bella e comoda al mio paese, prima stavo in mezzo alla gente e sono venuta qui a soffrire di solitudine.»

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOAvevo 18 anni nella foto. Alzarsi ogni mattina prima dell’alba era dura. Mio padre si svegliava ch’era ancora buio e si recava a perlustrare la striscia di terra per la raccolta, quella con le foglie di tabacco più mature. La pianta veniva sfogliata dal basso in alto, per ogni pianta si sfogliavano sei-sette foglie, tutto il campo veniva mediamente passato sei volte. Le foglie, a seconda della loro altezza, avevano un nome: frunzone quelle più basse, poi, salendo, quartaterzasecondaprima e primiceddha. Le prime raccolte ci costringevano a stare più chini. Per sopportare il piegamento s’appoggiava l’avambraccio sinistro sul ginocchio, che così reggeva il peso del corpo. Nel punto d’appoggio si formava un vero e proprio callo. Con l’ultima raccolta, prima e primiceddha, finalmente si poteva stare in piedi e sembrava quasi una passeggiata; così veniva anche più facile parlare e cantare, avendo come colonna sonora il monotono ticchettio delle foglie sfrondate.

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OGGI 2012 E IERI 1968: LO STESSO SCENARIOI miei genitori in posa sulla strada bianca che fiancheggiava la nostra casa. Torno a Collemeto una volta all'anno anche per i miei genitori che non ci sono più e che stanno lì al cimitero uno accanto all’altro, immobili, che ti fissano dai riquadri e pare che mi dicano ogni volta: Eh, fìju, sta tte rretiri? Te nde vai sempre ramingu e ne lassasti cquai suli suli.

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OGGI 2012 E IERI 1969: LO STESSO SCENARIOMia madre Lucia intenta a cucire e a rattoppare i panni davanti alla strada bianca nei pressi della casa colonica. Era bravissima a cucire mia madre. Da ritagli di stoffe o in disuso, lei ti confezionava pantaloni, camicie, mutande, maglie di lana (quelle che non sopportavi). Sfilava vecchi maglioni di lana e con un gioco di ferri faceva nascere coperte per l’inverno, oppure calzettoni di lana con i legacci, prese per la cucina, mantelli da donna per l’inverno. Con la mia tonaca nera da seminarista si cucì un vestito per portare il lutto alla morte di suo padre Pasqualino. Con le mie camicie senza colletto, sempre da seminarista, vennero fuori mutande e strofinacci. Ma era brava anche con l’uncinetto, il ricamo, il tombolo. A Collemeto aveva una macchina da cucire, che però non potette portarsi a Civita Castellana. E ne soffriva per questo. Nel mio guardaroba conservo ancora dei maglioni di lana pungenti, calzettoni di lana, prese per la cucina. Per non dire alcune bambole alle quali confezionava dei vestitini in miniatura.

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OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOA destra mia madre Lucia scoperta a pulire uno sgombro. A sinistra la casa di Terrano fiancheggiata dalla strada bianca che portava alla villa del proprietario. A destra e a sinistra c’erano le coltivazioni di tabacco. Questo luogo, dove ho trascorso tanti anni con i miei genitori e i miei fratelli, mi procura la stessa suggestione di trovarmi davanti a un pezzo di Collemeto che si è trasferito a Civita Castellana. Qui, oltre ai miei, vivevano altri parenti e tante famiglie provenienti da paesi salentini diversi. Un Salento in miniatura insomma. 

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OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOMio fratello Eugenio, detto lu cacanitu perché l’ultimo nato.

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OGGI 2012 E IERI 1970: LO STESSO SCENARIOSosto davanti al capannone del tabacco e ho per le mani due pollastrelle. Di sicuro era passato un venditore ambulante di pollame vivo e mia madre mi aveva incaricato di chiuderle nel pollaio.

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OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIOA destra il capannone con i telai del tabacco appoggiati alla parete. Mia madre Lucia che usciva dal pollaio per rientrare a casa. Per quella storia del gallo di don Silvano, consiglio di assistere al video Leccesi c’era una volta / Il gallo di don Silvano  tratto dal blog Spigolature Salentine.

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OGGI 2012 E IERI 1972: LO STESSO SCENARIOMio fratello Eugenio scherza davanti casa con mio cugino Antonio Mariano, che è stato mio compagno di scuola alle elementari. Alle loro spalle il magazzino e il pollaio. D’inverno, quando non c’era la pressione del tabacco, la domenica pomeriggio noi ragazzi organizzavamo in casa delle feste da ballo con dei dischi per ballare lo shake o i lenti degli anni Sessanta, detti ‘balli sul mattone’. Arrivavano anche le ragazze, ma eravamo tutti al di sotto dei 20 anni. A Terrano c'erano circa 50 famiglie circa, per cui di ragazzi ce n’erano tanti. D’estate, la domenica pomeriggio, si puntava anche al lago di Trevignano; chi non disponeva di un motorino s’accontentava delle acque dei vari torrenti che scorrevano sotto i fossi (le forre) nei punti dove la corrente si radunava in piccoli bacini. Si provavano anche i tuffi, come d’abitudine dagli scogli del nostro mare giù nel Salento, ma, per via del fondale basso, non mancavano le capocciate contro la sabbia… Me ne ricordo una! Beh, c’era anche una buona dose d’incoscienza. Si stava anche dietro alle ragazze: civitoniche o salentine non faceva differenza. Allora era di moda lo struscio in via Roma. Ricordo che alle otto di sera improvvisamente le vie si svuotavano: era ora di cena e i civitonici rientravano tutti a casa. I primi tempi, questa cosa che i civitonici scomparivano tutti insieme alle otto di sera era una vera stranezza per noi salentini.

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OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIO. La finestra che corrispondeva alla cameretta in cui dormivamo noi quattro fratelli. Da notare i telai ripiegati e accatastati, le bombole del gas e il carrello con cui si trasportava il tabacco raccolto nel campo che veniva stretto in una spaziosa vecchia coperta detta manta. Sullo sfondo il casale più vecchio del caseggiato San Massimo.

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OGGI 2012 E IERI 1973: LO STESSO SCENARIOLa finestra di sinistra era la cameretta dei fratelli Mariano, quella di destra dei fratelli Romano.

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OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIOIo e mia madre in un momento di gioia e di tenerezza.

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OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIOIo e mia madre... 

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OGGI 2012 E IERI 1974: LO STESSO SCENARIO.
Nel giardino di papà
sogno dei copiosi frutti
il tuo amor ritrovato
che rimpianto mamma
parole ci insegnasti
più grandi di te
gesti e pensieri
donare senza pretese
soffrire senza mai dire
domani fra le tue albe
svegli di già
le belle tue albe
che più non sanno
di cupi tramonti.

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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. Mia madre che lava i panni davanti casa. Nel periodo della lavorazione del tabacco c’era soltanto la domenica pomeriggio per qualche svago, ma solo per gli uomini. Le donne no, le nostre mamme no. Le mamme approfittavano della domenica pomeriggio, quando tutti gli uomini erano usciti, per lavare la biancheria di una settimana, specie gli indumenti da lavoro sporchi del grasso del tabacco, un grasso maledetto che ti impregnava mani e indumenti. Era un super lavoro casalingo. Mia madre negli anni ha rimarcato sempre la solitudine di quei pomeriggi domenicali. Le donne perciò erano quelle che più pativano la fatica e l’isolamento. Gli uomini, per lo meno, i nostri padri, si recavano a Civita a piedi e passavano di osteria in osteria a farsi un bicchiere, giocare a carte, oppure puntavano sul Bar Sangallo che era il ritrovo dei salentini. Ritornavano a casa che era già buio ed erano sempre un po’ alticci… ma quei cinque chilometri a piedi li conoscevano a memoria ormai.

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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIOCon mia madre Lucia vicini al lavatoio dove per tanti anni si è spezzata la schiena per lavare i panni di tutti noi. 

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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIOUltimo anno di tabacco. Nella foto, mio padre Giovanni e mia madre Lucia davanti al capannone del tabacco; dietro, la mia 500 Fiat che poi finì a Collemeto. I miei genitori sono rimasti in questo luogo fino a quando io e i miei fratelli siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso anzi a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia.

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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIO. La mia 500 di seconda mano. Sono in macchina e metto in moto: direzione Civita Castellana per raggiungere la biblioteca dove lavoravo. Ma c’era sempre qualcuno cui dare un passaggioEro uno dei pochi a possedere un’auto. Così anche chi doveva partorire d’urgenza si rivolgeva a me per correre al pronto soccorso. Mi bussavano anche di notte, un vero servizio d’ambulanza! Bastava poi mettere l’auto in moto che in tanti mi s’affollavano intorno per le ordinazioni: sale, zucchero, pasta, sigarette… perfino la posta. Le lettere arrivavano tutte a Piazza di Massa n. 52 presso il negozio di generi alimentari Becchetti, allora il primo entrando a Civita da via Terrano. La maggior parte delle lettere erano quelle d’amore destinate alle ragazze i cui fidanzati erano rimasti giù nel Salento oppure emigrati in Germania o in Svizzera. Quando ritornavo a Terrano con la spesa fatta e la posta, era tutto un corrermi incontro. Non dico la gioia delle ragazze per una lettera pervenuta o la delusione quando l’attesa era stata vana: roba che mi sentivo quasi colpevole della manifesta tristezza sul volto delle morose.

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OGGI 2012 E IERI 1975: LO STESSO SCENARIONella foto di destra mio padre Giovanni e sua cugina Felicetta Romano in un campo di burley. Fu l’ultimo anno di coltivazione del tabacco. Il tabacco, in verità, non ha arricchito mai nessuno  a Civita Castellana, giusto la speranza di un avvenire per i figli che restavano. 
Fu gente di Collemeto emigrata a Civita Castellana alcuni anni prima a capacitare mia madre a partire. Mio padre invece era restio. E non gli si poteva dare torto, visto che emigrare a 52 anni, quanti ne aveva allora, non era cosa semplice. La verità è che papà da qualche tempo aveva perso il lavoro (commerciava in tufi da costruzione) e a casa si attraversava un momento difficile. Perciò Civita Castellana apparve come una soluzione.

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APRILE 2012. Un lato del vecchio caseggiato S. Massimo che dà sulla strada bianca. E’ visibile ancora la targa.

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APRILE 2012. Al di là dello strada bianca c'era l'orto di mio padre e il terreno per la preparazione dei semenzai del tabacco.

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APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.

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APRILE 2012. La campagna intorno dove prima si coltivava tabacco.

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APRILE 2012. La strada bianca in direzione Civita Castellana nel tratto in cui fiancheggiava la mia casa colonica. In questo punto mia madre s'affacciava sempre per un mio ritorno. E, quando accadeva, era un correre correre.

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APRILE 2012. Mi sono incamminato sulla via del ritorno. Mi volto per scattare l'ultima foto a quello che per me è un luogo dell’anima ormai. 


FINE